Comunicato diffuso dalla Commissione Relazioni Internazionali della Federazione
Anarchica Italiana
Fermiamo la guerra in Mali!
L'11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un'operazione
militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le
unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che
imperversa in quell'area e per difendere la popolazione dalle violenze.
Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e
l'Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di
appoggiare l'attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire
supporto logistico. Passano poche settimane e, all'inizio di febbraio
il presidente francese Hollande "atterra" tra le sue truppe a Timbuctu,
ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le
milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi
completamente liberato: "Sosterremo i maliani fino alla fine di questa
missione nel nord - ha dichiarato - ma non intendiamo star qui per
sempre".
Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se
si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli
ultimi anni.
Infatti, c'è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e
dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo
paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento
delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene
militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di
mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i "semi"
della democrazia, l'altro si sostengono le forze ribelli con soldi e
armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri
(durante l'attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto
ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli,
poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a
rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata
indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle
festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di
profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini
maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i
fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca
di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di
ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La
distruzione generata dai bombardamenti dell'aviazione, invece, non
appare mai.
L'opinione pubblica occidentale si confronta con l'ennesimo conflitto
in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli
scenari di guerra favorisce, infatti, un certo "distacco".
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti
degli stati alimentano il pericolo "terrorista" (i recenti fatti che
hanno interessato l'impianto energetico di In Amenas in Algeria
rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni
umanitarie, si estendono, comunque, anche all'interno dei confini dei
paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in
nome della "sicurezza" continuano a erodere gli spazi di libertà
e costituiscono uno "strumento repressivo e politico pronto all'uso"
per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della
protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l'intervento militare in Mali ci si
rende conto dell'infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille
contraddizioni che ne scaturiscono.
L'esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta
d'aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata
solo il pretesto.
È' impossibile credere che sia stata l'emergenza umanitaria a
spingere l'Europa a intraprendere questa nuova guerra. L'Africa
è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e
nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata.
Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c'è
l'emergenza "terrorismo islamico".
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa
guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della
FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l'intervento
francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il
governo di Niamey per l'installazione di una base militare statunitense
ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.
Dobbiamo considerare questa "nuova" guerra come la prosecuzione
naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci
troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo
politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse
naturali e inquadrato in un'ottica di contrasto dell'avanzata dei
capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner
commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce
con una media del 5,2% l'anno, cifre impressionanti) e in molte zone
vanta l'esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell'area centro-nord
africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto
la propria influenza quelle zone di interesse strategico per
l'abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il
Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco
oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più
importanti miniere d'uranio nigeriane. Il riferimento è alla
miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran
parte dello "yellowcake" destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari
francesi. Nella stessa zona è prevista l'apertura di quella che
è destinata a diventare una delle più grandi miniere al
mondo per l'estrazione dell'uranio, Imouraren. Non mancano poi l'oro e
il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – "spalla"
di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non
può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese
è fondata sull'energia nucleare, una scelta che ha radici nel
passato perché direttamente legata alla necessità di
rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico
internazionale. Sappiamo bene che non c'è soluzione di
continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell'energia
atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a
minacciare l'umanità. Una scelta di sistema che rende,
nell'attuale contesto d'instabilità, difficile, per il governo
francese, individuare fonti energetiche alternative. La
disponibilità dell'uranio rimane, quindi, una questione
essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l'esercito francese tornerà in patria sarà solo
perché il controllo della situazione sarà affidato alle
armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità
Economica degli Stati dell'Africa Occidentale) siano state,
velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La
necessità di "proteggere" le aree d'interesse minerario da una
possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi
energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime
e non c'è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando
di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo,
una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la
finanziarizzazione dell'economia sono mezzi per movimentare
repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di
governi, stati e confini nazionali non più funzionali al
profitto di multinazionali e società finanziarie.
Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono
l'uranio senza alcun rispetto per l'ambiente e per i lavoratori, gli
abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un
prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi
indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti,
sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere
sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma
anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni
di scorie radioattive sono raccolte all'aria aperta sin dall'inizio
dell'attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri
derivati considerati cancerogeni si spargono nell'ambiente. Ma l'Areva
opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale
irraggiato passa per il nostro paese verso l'impianto di la Hague dove
si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di
riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra
di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni
della popolazione non conoscono confini nazionali!
Diffondere l'informazione contro l'ipocrisia del potere, rafforzare la
consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono
solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo
devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù,
economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l'internazionalismo, l'antimilitarismo e la
solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici
fermare l'orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.
Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!
Commissione Relazioni Internazionali della Federazione Anarchica Italiana
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