"Noi vogliamo che la società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, il massimo possibile sviluppo morale e materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza." (E. Malatesta)
È tempo di pagelle ed il primo quadrimestre per la scuola si è
concluso in modo disastroso. Lo scorso settembre le scuole avevano
riaperto senza tenere in alcuna considerazione ciò che da mesi
veniva richiesto in modo martellante da sindacati di base,
organizzazioni studentesche ed associazioni varie: una riduzione
del numero di alunni per classe, con un aumento di organico
docente e ATA; una immediata attivazione di interventi di
edilizia; reperimento di ambienti sicuri e idonei per lo
svolgimento delle attività didattiche. Richieste necessarie in
qualunque momento, indispensabili in periodo di pandemia: insomma,
scuole aperte in presenza e in sicurezza.
Invece le scuole a settembre hanno sì riaperto in presenza ma non
certo in sicurezza. È bene che questo sia chiaro, a fronte della
vulgata corrente che ci narra di scuole come luoghi sicuri, quando
invece niente è stato fatto per renderle tali. In questi mesi
abbiamo lavorato in spazi non idonei ed angusti, in cui per gli
studenti era impossibile mantenere anche quell’unico patetico
metro di distanza, misura di distanziamento più bassa in Europa,
che spesso non era nemmeno garantito. Si è dovuto sopperire alla
mancanza di distanziamento con l’uso costante della mascherina,
anche per i bambini di 6 anni, tenuti a scuola imbavagliati per 8
ore con la mensa ridotta ad un cestino pranzo da consumare al
banco, abbassando momentaneamente la mascherina. Ai lavoratori è
stata negata dal ministero la mascherina più protettiva, la FFP2,
diffusa nella maggior parte dei luoghi di lavoro ma non a scuola,
dove viene fornita la chirurgica. Le procedure di sanificazione
successive all’isolamento di ambienti in cui si registravano casi
covid-positivi sono state imposte ai collaboratori scolastici
anziché affidate a personale specializzato e sono state procedure
molto sommarie, con dotazioni e protezioni inadeguate che non
hanno tutelato i lavoratori come sarebbe stato necessario. Anche
questo per disposizione centrale.
I DVR delle scuole, documenti di valutazione dei rischi, sono
stati integrati con parti relative alla gestione della sicurezza
covid, risultando essere spesso un assemblaggio irresponsabile di
misure fittizie. In alcuni casi sono addirittura state previste
igienizzazioni e sanificazioni di postazioni di lavoro (banchi,
computer, postazioni laboratori, attrezzi palestra) a carico degli
studenti stessi. In certe situazioni è stato possibile
intervenire, aprendo vertenze, mobilitazioni e azioni di protesta;
in altri le disposizioni di “insicurezza” erano rigidamente
tutelate da direttive emanate da Ministero e Comitato Tecnico
Scientifico, organo asservito alle logiche dell’oscuramento delle
necessità sanitarie. Tutto questo per non cedere di un millimetro
sull’aumento di spazi e personale.
Alle pressanti richieste (ricordiamo le manifestazioni della
primavera e gli scioperi del sindacalismo di base di agosto e
settembre), il Governo aveva risposto con un irrisorio aumento di
organico, oltretutto discriminato rispetto al resto del personale,
in quanto per l’organico Covid si prevedeva addirittura il
licenziamento in tronco, senza giusta causa, qualora l’attività in
presenza fosse stata sospesa. Gli scioperi dell’autunno e le
mobilitazioni dei lavoratori, soprattutto precari, hanno fatto
decadere questa clausola vessatoria assicurando un contratto di
lavoro non revocabile fino alla fine dell’anno scolastico, c’è
ancora però bisogno di un costante intervento sindacale per
assicurare a questi lavoratori la retribuzione, che arriva con
estremo ritardo (il mese di ottobre è stato retribuito a dicembre)
proprio per l’anomalo inquadramento ricevuto, a dimostrazione che
non c’è nessuna volontà di implementare la pianta organica ma,
anzi, si distingue rigidamente il personale assunto
provvisoriamente per esigenze straordinarie da quello
ordinariamente necessario.
In questo caotico sistema di funzionamento delle scuole in
presenza, la sicurezza non è dunque mai stata tutelata. Altro che
aperti in presenza ed in sicurezza. Anche la presenza stessa è
stata fin da subito zoppicante: il sistema di tracciamento dei
casi positivi ha determinato infatti fin da subito, l’attivazione
di una quantità di quarantene che di fatto spopolavano le scuole.
Nessun altro ambiente prevede un contatto fisico così ravvicinato
con permanenza nello stesso spazio per un tempo prolungato, né una
moltiplicazione di contatti e clusters così elevata. A scuola si
sta in 25/30 persone in una stanza che anche fuori pandemia ne
dovrebbe contenere la metà; ci si sta per 5-6-8 ore (nel caso di
primaria a tempo pieno). L’insegnante delle superiori ha più
gruppi classe: in una stessa mattina un insegnante che abbia 5-6
ore può vedere fino a 170 studenti, di 5- 6 classi diverse, con
cui permane in un ambiente non idoneo per almeno un’ora.
Il tracciamento messo in atto dalle ASL prevede di accertare, in
caso di presenza in classe di caso positivo, se c’è stata
permanenza nell’ambiente comune superiore a 15’, mantenimento
costante della distanza di 2 metri dagli studenti, mantenimento
costante di finestra e porta aperta, uso costante e corretto di
mascherina (preferibilmente FFP2, quella che non ci danno perché
più costosa). In difetto di uno di questi requisiti il contatto
con il positivo è ritenuto contatto stretto e viene disposta la
quarantena anche per gli insegnanti, mentre quella per la classe
viene disposta in automatico. [...]
La quarantena, secondo disposizioni INPS, è assimilata dal punto
di vista previdenziale a malattia, anzi, a degenza ospedaliera ed
è evidente che quando si è malati non si lavora. Perché mai però
buttare via quella meravigliosa invenzione che è la Didattica a
Distanza e non far lavorare da casa chi è sì in malattia ma, in
realtà, secondo le “autorità” è solo in quarantena e se ne sta in
panciolle? Sono quindi arrivate circolari ministeriali che davano
indicazione di attivare la DAD da casa. Siccome poi non sono
mancate da parte degli insegnanti le opposizioni, le resistenze,
le impugnative, le diffide che richiamavano le disposizioni INPS,
allora i sindacati confederali sono scesi in campo ed hanno
avviato la contrattualizzazione della Didattica a Distanza, o, per
dirla come è stata non casualmente ridefinita, della DDI,
Didattica Digitale Integrata.
Quella DaD che abbiamo sempre rifiutato perché divisiva,
escludente, inefficace e comunque legata all’emergenza sanitaria è
così diventata un elemento stabile, portato a sistema, blindata
all’interno di una contratto firmato nella prima metà di novembre
da CGIL CISL ed Anief. Oltre ad equiparare la DaD/DDI alla
didattica in presenza per orario di lavoro, registrazione delle
assenze dei ragazzi (in barba al digital divide che esclude 1/3
degli studenti dalle lezioni) ed altri aspetti, il testo
contrattuale prevede che il docente in quarantena fiduciaria debba
effettuare comunque didattica a distanza con la classe posta in
quarantena od anche con altri classi in presenza a scuola. In
pratica, pur rimanendo ancora in piedi la nota INPS, si supera per
contratto separato la nozione di quarantena equiparata a malattia
e si ordina di lavorare da casa a chi non ha sintomi certificati
di malattia vera e propria. Non ci sarà da stupirsi troppo se
prossimamente si chiederà di lavorare da casa a chi ha una gamba
ingessata o qualche accidente che comunque non impedisce di stare
davanti a un computer. Computer che nessuno ti fornirà, fra
l’altro, perché sempre il medesimo contratto non prevede nessun
impegno del datore di lavoro nel fornire strumentazione
indispensabile, favorendo completamente l’amministrazione: un
contratto tutto dalla parte del datore di lavoro, senza alcuna
tutela per i lavoratori.
Lo smartworking, già praticato da tempo in molti settori
lavorativi, prevede che al lavoratore sia fornita la
strumentazione necessaria e che ci sia un accertamento sulla
idoneità dell’ambiente di lavoro domestico, anche ai fini della
copertura assicurativa ed antinfortunistica. Nella scuola non è
successo niente del genere: device, spese di connessione e di
utenze tutte a carico del lavoratore. È così che si è lavorato da
novembre in poi, è così che si lavora tuttora.
L’Italia è stata suddivisa in zone che secondo i colori
prevedevano nelle scuole superiori didattica a distanza
generalizzata od in percentuale consentendo, con la
percentualizzazione, di attuare la DDI, le forme “blended” e
flessibili della didattica a distanza tanto care a Confindustria:
frequenza a gruppi alterni, oppure classi divise, metà a scuola e
metà a casa, collegate in videolezione sincrona, il che significa
violazione del divieto di videosorveglianza previsto dallo Statuto
dei Lavoratori. La scuola primaria e media, invece, in questi mesi
è stata trattata come una fabbrica, mantenendo la presenza al 100%
tranne che nelle zone rosse, in omaggio alla nozione di scuola
come servizio che sempre di più si è affermata in questi mesi. Se
il paese non deve fermarsi la scuola serve perché è il parcheggio
dei più piccoli.
Certo che la DAD è distruttiva, che esclude, che separa, che
toglie autonomia di esperienza, che rende ancora più gerarchico il
sistema scolastico; certo che è meglio stare a scuola (anche se la
scuola è quello che è) piuttosto che stare a casa, però è
veramente insopportabile sentire i proclami diffusi di chi dice
che la scuola deve stare aperta alla pari di tutti gli altri
settori produttivi. Che le scuole sono perfettamente sicure, basta
arrivarci con autobus non troppo pieni perché l’unico problema
sono i trasporti. Che se non bastano gli spazi le lezioni si
possono fare anche all’aperto perché il gelo di gennaio è
tonificante. Che il personale che chiede misure di sicurezza più
efficaci toglie ai bambini la gioia della socialità e comunica
cupezza. Non se ne può più di sociologi e pedagogisti che sono
megafono di Confindustria, non se ne può più della Azzolina che
dopo avere imposto la DaD ora impone la presenza a tutti i costi
(tranne i costi di personale, edilizia e sicurezza) diventando
l’eroina di qualche settore sedicente antiDaD.
Che non se ne può più se ne sono accorti. Si sono accorti che,
nonostante la disgregazione dovuta al periodo, alla presenza
episodica sul posto di lavoro, allo stress di lavorare in
condizioni di disagio, non sono tuttavia mancate assemblee
sindacali, presidi, scioperi, proteste, saldature tra lavoratori,
studenti, cittadini. Nelle piazze, nonostante i divieti, sono
stati portati contenuti anche significativi, rivendicazioni
indispensabili come la riduzione del numero di alunni per classe,
condivisa perché funzionale alla didattica, alla sicurezza,
all’occupazione.[...]
Ancora una volta la scuola mostra di essere un settore strategico,
in cui si consumano ristrutturazioni di portata generale, ma in
cui sono anche attive forme di forte consapevolezza e iniziative
di lotta assai importanti, cui va assicurata solidarietà, sostegno
e con le quali occorre mantenere una saldatura significativa.
Patrizia Nesti da Umanità Nova n.3 del 31/01/21
Nel torpido clima sociale favorito dalla situazione sanitaria
l’apparato statale ed i sindacati altrettanto statalizzati non
sono, purtroppo, in letargo. Da oggi infatti, grazie a un accordo
fra governo e sindacati istituzionali firmato il 2 dicembre,
scioperare nel mondo della scuola, dell’università e della ricerca
sarà ancora più difficile di quanto fosse già da anni grazie:
1. alla situazione normativa determinata dalla legge 146/90, una
vera e propria legge antisciopero per quel che riguarda i servizi
pubblici individuati come “essenziali”, che fu promulgata non a
caso dopo il ciclo di lotte della scuola, della sanità e dei
trasporti degli anni ’80;
2. agli accordi sull’applicazione della legge 146/90 fra governo e
sindacati istituzionali che sono stati firmati nel corso degli
anni nei diversi comparti coinvolti ed ai numerosi interventi
della Commissione di Garanzia per (in realtà contro) l’esercizio
del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Proprio la differente situazione fra il 1990 ed il 2020 rende
opportuno domandarsi perché, in un contesto di scarsa
conflittualità, si sia sentita la necessità di un’ulteriore
stretta e perché tutti i sindacati istituzionali della scuola –
ANIEF, CGIL, CISL, GILDA, SNALS e UIL – abbiano condiviso
quest’accordo.
Senza escludere l’incidenza di un automatismo burocratico che ha
portato l’ARAN ed i sindacati istituzionali a “fare i compiti” con
lo zelo che caratterizza, appunto, le burocrazie, vale a mio
avviso la pena di porre l’attenzione su quali sono le questioni
che un irrigidimento della normativa antisciopero permetterà,
almeno nelle loro speranze, di affrontare in maniera ordinata e
concertata.
[...] È comunque evidente che fra le cause di quanto è avvenuto
possiamo annoverare i vincoli legali alla mobilitazione sindacale
e l’acquiescenza alle politiche governative dei sindacati
“rappresentativi”. Un’acquiescenza che si spiega, fra l’altro, con
i robusti finanziamenti che il governo garantisce loro, sotto
forma di permessi e distacchi, e non solo, con l’ottenimento del
monopolio della rappresentanza sindacale, in pratica, del diritto
di indire assemblee, di contrattazione ecc. a tutti i livelli, da
quello nazionale a quello di singolo istituto. In estrema sintesi,
uno scambio fra diritti e interessi delle lavoratrici e dei
lavoratori e diritti e interessi dei sindacati.
Tornando all’oggi, è evidente, come si è premesso, che si tratta
per il governo di sterilizzare il conflitto sindacale e, per i
sindacati rappresentativi, di rafforzare il loro controllo sulla
categoria impedendo l’azione dei sindacati di base e, a mio
avviso, soprattutto, eventuali movimenti dal basso che, in questa
situazione, rischiano di svilupparsi rompendo l’attuale
stagnazione del conflitto.
D’altro canto il fatto che l’accordo sia stato sottoscritto da
TUTTI e sei i sindacati “rappresentativi” compreso l’ANIEF, ultimo
arrivato a questo titolo e solito presentarsi come il “giovane
sindacato” dice qualcosa sul fatto che, al di là delle polemiche
di bottega, questi signori hanno perfettamente chiaro quali
interessi li uniscano. Veniamo allora all’accordo: in sintesi alle
molte limitazioni già esistenti si aggiunge che:
1. Non sarà possibile scioperare i primi cinque giorni di
settembre ed i primi tre giorni dopo le pause natalizia e
pasquale. È un modo per ridurre la possibilità effettiva di
scioperare utilizzando, contro le lavoratrici ed i lavoratori, un
argomento di tipo moralista anche se, ovviamente, di un moralismo
untuoso. Lo sciopero non deve comportare alcun “vantaggio”
indiretto allo scioperante quale potrebbe essere il prolungamento
delle ferie. È il tipico argomento utilizzato dai crumiri
moralisti, non di rado ottimisti e di sinistra, contro lo sciopero
il venerdì. Inoltre
1. gli scioperi non possono superare nel corso di ciascun anno
scolastico il limite di: 40 ore individuali (equivalenti a 8
giorni per anno scolastico) nelle scuole materne e primarie e 60
ore annue individuali (equivalenti a 12 giorni per anno
scolastico) nelle scuole secondarie I e II grado.
2. sale da 7 a 12 giorni lavorativi l’intervallo minimo tra due
azioni di sciopero indetti sia della stessa che da altre
organizzazioni sindacali. L’effetto sarà l’accrescimento degli
ostacoli burocratici all’indizione degli scioperi;
3. le diverse azioni di sciopero dovranno essere contenute in modo
da assicurare comunque l’erogazione, nell’anno scolastico, di un
monte ore non inferiore al 90% dell’orario complessivo di ciascuna
classe;
4. presso ogni istituzione scolastica e educativa, il dirigente
scolastico e le organizzazioni sindacali rappresentative – i
soliti sei – stipulano un apposito protocollo di intesa sui
contingenti minimi di lavoratori e lavoratrici che non possono
scioperare. Nei fatti l’apparato sindacale esautora i delegati RSU
di istituto, che peraltro non sono di regola belve del
sindacalismo rivoluzionario, da un potere di contrattazione per
avocarselo. Insomma non si fida neppure di delegati che, in
grandissima parte, aderiscono ai sindacati istituzionali;
5. Veniamo a una “novità” se possibile, più rilevante. La
comunicazione sullo sciopero inviata alle famiglie dovrà indicare
i dati sulla rappresentatività nazionale delle organizzazioni che
indicono lo sciopero, le percentuali di adesione agli scioperi già
indetti dalle stesse ed i voti ottenuti alle ultime elezioni RSU.
Apparentemente un’operazione volta alla “trasparenza”, in realtà
un sovrapporre strumentalmente due grandezze che hanno poche
relazioni fra di loro visto che la gran parte degli iscritti ai
sindacati, oprattutto a quelli di stato, si iscrivono per ragioni
affatto diverse dall’adesione alla sua piattaforma ed dalla
disponibilità a mobilitarsi. Quanto sia vera questa considerazione
è dimostrato dallo sciopero indetto da cgil-cisl- GILDA-SNALS-uil
l’8 giugno scorso cui aderì lo 0,47% dei lavoratori in servizio.
In realtà, per ANIEF-CGIL-CISL-GILDA-SNALS-UIL, le lavoratrici e i
lavoratori sono individui atomizzati che si rivolgono a un
sindacato solo, o principalmente, per il disbrigo di pratiche e
non soggetti capaci di operare collettivamente e la loro
“volontà”, dal loro punto di vista, è certificata da una delega in
bianco al sindacato di appartenenza e non dal loro pensiero e
dalla loro azione e soprattutto dall’azione conflittuale e
collettiva;
6. Infine, per non farsi mancare nulla, si rimanda al prossimo
contratto di categoria l’impegno a definire altre forme di
astensione collettiva, quali lo sciopero “virtuale”. Ancora una
volta i fautori della scuola azienda ricorrono, quando pare loro
opportuno, alla più frusta retorica sul lavoratore della scuola
come missionario disposto a perdere la retribuzione pur lavorando
per dimostrare la sua serietà: io direi, mi si perdoni il termine,
la sua scimunitaggine.
Per concludere questo nostro discorso, a fronte di questo accordo
capestro si tratta:
1. di organizzare raccogliendo tutte le forze disponibili una
campagna di informazione, di denuncia e di pressione verso tutti i
lavoratori e lavoratrici e senza trascurare qualche contraddizione
che potrebbe aprirsi fra i militanti onesti dei sindacati pronta
firma;
2. di ragionare sulle forme di lotta diverse dallo sciopero, anche
se parlare di forme di lotta alternative allo sciopero è,
sindacalmente parlando, un’idiozia. È infatti sin troppo vero che
spesso le si è invocate come argomenti per sottrarsi alla lotta ma
ciò, a maggior ragione nella situazione che si prospetta, non ci
esime da una riflessione e da una sperimentazione nel merito;
3. di porsi nella prospettiva di forzare la stessa normativa
antisciopero a livello categoriale e generale con scioperi
necessariamente illegali, cosa non facile ma non impossibile se vi
è la necessaria determinazione.
Cosimo Scarinzi da Umanità Nova n.38 del 13/12/20
Dall’inizio di marzo la scuola italiana ha cambiato volto. Un
intero comparto – che coinvolge tutta la popolazione dai 3 ai 19
anni più una notevole quantità di insegnanti, personale
amministrativo – tecnico ed ausiliario si è trovato coinvolto in
una massiccia operazione di ristrutturazione. L’emergenza Covid ha
determinato, insieme al blocco delle lezioni, la revisione totale
delle forme di lavoro: si è infatti attivata una fase di lavoro
agile del tutto inedita, priva di qualsiasi forma di protezione
contrattuale e/o infortunistica, scaricando tutti i costi concreti
dell’operazione su lavoratrici e lavoratori.
È in questo contesto che è partita la Didattica a distanza. Fino
dai primi giorni, quando per decreto le lezioni sembrava che
dovessero riprendere il 16 marzo e nessun obbligo veniva imposto
ai docenti, è iniziato il bombardamento delle piattaforme private
che in modo martellante ed invasivo proponevano modalità di
gestione della DAD. Il Ministero ha attivato convenzioni con Tim
(WeSchool), Microsoft (Office 365 Education A1) e Google (Google
Suite for education) esternalizzando di fatto la didattica con
un’operazione estensiva anche se non nuova.
[…] È stata però ghiotta anche l’opportunità per la Pubblica
amministrazione, di cui il Ministero dell’Istruzione fa parte e
per il Governo, che ha infatti investito una prima tranche di 85
milioni di euro tutti sull’informatica, cui è seguito l’impegno
per una seconda tranche sempre assai consistente. La DAD infatti,
nata in emergenza, può avere applicazioni utili “in tempo di
pace”, consentendo forme nuove di razionalizzazione, preziose per
chi è sempre alla ricerca di tagli su un settore come quello
scolastico.
La didattica a distanza, con la smaterializzazione fisica della
lezione e del gruppo classe, consentirebbe infatti vari scenari,
dai più realistici ai più fantasiosi (ma nemmeno poi tanto): un
massiccio taglio di posti di lavoro, strutture scolastiche e spese
di funzionamento oltre che dei cosiddetti rami secchi, come scuole
di comuni montani o zone periferiche; potrebbe essere utilizzata
per corsi di recupero, supporto a studenti nei periodi estivi,
nelle vacanze natalizie o pasquali, in tutti quegli spazi in cui i
docenti non sono legalmente in ferie, intervenendo sull’orario di
lavoro, portando a rivedere le retribuzioni eccedenti di tutte
quelle prestazioni in presenza che attualmente sono retribuite,
ecc. Soprattutto però potrebbe consentire lo sforamento ad libitum
del numero massimo di alunni per classe. Insomma, uno scenario
dell’orrore per chi lavora nella scuola ma anche per studenti e
famiglie.[...]
La diffusione delle modalità di gestione informatica ha impresso
una accelerazione potente a tutto quanto, proponendo in modo
virtuale il modello di quella lezione che era invece sospesa per
decreto. Lo strumento della videolezione si è rivelato a questo
proposito particolarmente insidioso. Trattandosi di una modalità
“sincrona”, per evitare sovrapposizioni ha prodotto la definizione
di un orario delle lezioni virtuali, l’accertamento delle presenze
degli studenti, la modalità di verifica sotto telecamera, ecc. Le
direttive ministeriali, non certo per buon cuore ma per
consapevolezza dei paletti contrattuali, facevano riferimento a
lezioni sospese, a diritto allo studio, a valutazione formativa, a
sensibilità deontologica nello scegliere le forme più adeguate,
ecc; le piattaforme invece definivano tecnicamente modalità rigide
di riproduzione delle lezioni sospese; i Dirigenti scolastici
imponevano comportamenti rigidi più coerenti con il funzionamento
delle piattaforme che con le indicazioni ministeriali; le
disposizioni ministeriali approfittavano del contesto imponendo
progressivamente comportamenti più definiti all’interno di questa
modalità e derogando in continuazione dall’ambito contrattuale e
pattizio, man mano che la decretazione d’urgenza diventava, in
tutto il paese, la prassi.
Un contesto caotico in cui, oltre a tutto il resto, emergeva anche
con chiarezza il ruolo della tecnologia nella ridefinizione del
lavoro in senso ancora più gerarchico. È stato necessario un
grande lavoro sindacale per contrastare queste manovre, per
bloccare Dirigenti che chiedevano di svolgere un orario, di
accertare la presenza degli studenti, di chiedere conto delle
assenze, di fare compiti ed interrogazioni come se niente fosse,
di mettere voti, di violare la privacy di studenti e famiglie
pretendendo telecamere accese. È stato un lavoro duro, che ha
utilizzato i canali della comunicazione e della propaganda per
mantenere l’attenzione sveglia sui processi autoritari, che ha
agito con impugnative e diffide ai Dirigenti e ai loro solerti
staff; un lavoro duro fatto scuola per scuola, non certo ai tavoli
centrali a cui i sindacati non concertativi non partecipano, in
una situazione di confronto a distanza, priva di interazioni
fisiche, di incontri collegiali reali, di assemblee sindacali, di
discussioni sul luogo di lavoro, di praticabilità di azioni
concrete di protesta all’esterno.
Eppure si è fatto e sulla DAD e tutto ciò che la accompagna c’è
stata un’operazione puntuale di controinformazione e di contrasto:
anche perché nel frattempo la DAD ha mostrato tutta la sua
inadeguatezza, e non solo dal punto di vista sindacale. Indicata
come la strada per garantire il diritto allo studio, la didattica
a distanza ha dimostrato di non garantire proprio nulla, tanto
meno il diritto allo studio.
Prima di tutto il digital divide: è emerso fin da subito che il
33% delle famiglie italiane con figli in età scolare non possiede
un device adeguato per lo svolgimento della DAD; in pratica uno
studente su 3 è escluso. Si è cercato di compensare con la
fornitura in comodato gratuito di alcuni portatili ma il numero
delle disponibilità era comunque inferiore alle necessità e, in
ogni caso, la procedura per la richiesta andava fatta… on line.
Comunque questo non è certo stato l’unico problema. Il contesto
domestico presenta non solo situazioni estremamente diversificate
per il possesso dei mezzi tecnologici ma anche per disponibilità
di spazi, interazioni familiari, competenze digitali individuali o
familiari. Perché se quello dei ragazzi tutti nativi digitali si è
rivelata una narrazione con poco fondamento, per i più piccoli c’è
stata comunque necessità della mediazione dell’adulto, quando
c’era, quando lo sapeva fare, quando ne aveva tempo e voglia.
Quindi la DAD si è rivelata discriminatoria o, meglio, ha
potenziato la caratteristica discriminatoria che già c’è nella
scuola reale. Quindi diritto allo studio un bel niente. Sono
considerazioni ormai acquisite, perché i limiti della DAD sono
stati rilevati ormai su larga scala ed è finita la fase
dell’esaltazione de “la scuola non si ferma”.
Il fronte delle critiche alla DAD è attualmente così ampio che
merita qualche considerazione. Ovviamente è assai positivo che
questa modalità didattica sia contestata in modo così diffuso.
Qualche riflessione deve però essere fatta su tutta la variegata
opposizione nata soprattutto da parte di associazioni di famiglie,
recentemente costituitesi in comitati che invocano a gran voce la
ripresa delle lezioni in presenza. Il panorama è variegato e mette
in evidenza, assieme ad alcune posizioni più che condivisibili,
anche tendenze che fanno riflettere. Innanzitutto il fastidioso
rilancio di un familismo diffuso, che imperversa e che ambisce a
proporre “le famiglie” come soggetto politico nella gestione della
questione scuola.
Inoltre, è impossibile non considerare che questa insofferenza
familiare alla DAD si è manifestata in modo già organizzato alla
vigilia della fase 2, quando da parte di Confindustria e di molti
settori politici ci sono state pressioni forti per la ripresa del
lavoro. Gli stessi documenti prodotti dai comitati di famiglie più
strutturati fanno riferimento, senza mezzi termini, alla necessità
che la scuola sia a servizio dell’economia e della ripresa delle
attività economiche; resta sullo sfondo la questione della
sicurezza con cui la riapertura delle scuole dovrebbe essere
garantita, su cui le opinioni sono molto vaghe.
Altrettanto colpevolmente vago è anche il Governo, che ha emesso
recentemente le prime disposizioni per la riapertura delle scuole
in totale incoscienza. Il primo banco di prova per la riapertura
in sicurezza delle scuole è l’esame di stato. Il protocollo di
sicurezza è stato stilato in convenzione con Protezione Civile e
Croce Rossa ma sono curiosamente assenti INAIL e Ministero della
Sanità. La sanificazione degli ambienti da parte di ditte
specializzate nella fase di riapertura è un optional, concesso
laddove le pressioni sindacali si fanno sentire; i dispositivi di
protezione sono assicurati solo parzialmente.[...]
Patrizia Nesti da Umanità Nova n. 20 del 07/06/20
Supplemento al n.4/2021 di Umanità Nova a cura
della Commissione di Corrispondenza della FAI e della
redazione di Umanità Nova
Per contatti:
federazioneanarchica.org
cdc@federazioneanarchica.org
umanitanova.org
uenne_redazione@federazioneanarchica.org
Per scaricare il testo del volantone in formato PDF:
https://mega.nz/folder/LJJR2C6R#xwPzJqo3FCXd2VnzxE-uJA
web-fai@federazioneanarchica.org