"Noi vogliamo che la società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, il massimo possibile sviluppo morale e materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza." (E. Malatesta)

Mozioni e documenti della Federazione Anarchica Italiana


Mozioni approvate al XXV Congresso della Federazione Anarchica Italiana (Carrara, 29/10-1/11 2005)

Mozione approvata al XXV Congresso della F.A.I. (Carrara 29/10-1/11 2005)

L'urgenza dell'anarchia non è un mero auspicio delle anarchiche e degli anarchici riuniti a Carrara per il XXV Congresso della FAI, bensì una necessità di salvezza per 6 miliardi di individui.
La guerra permanente scagliata contro l'umanità da parte di ceti politici criminali comincia visibilmente a sradicare le materiali condizioni di vita di cui gli stati non hanno mai avuto la capacità, e men che mai adesso, di garantire. Guerra, disastri ambientali, impoverimento crescente dei popoli sono la realtà quotidiana che dimostra concretamente come l'ordine dello stato e del capitale sia caos e morte.
Queste, che sono state le storiche condizioni di vita per tre quarti della popolazione del pianeta, toccano ora anche i "benestanti" cittadini rinchiusi nelle fortezze blindate da quelle elite criminali che dominano attraverso gli strumenti bellici, le tecnologie di sorveglianza di massa a distanza, la segregazione, l'incarcerazione diffusa, l'esproprio di sapere critico, la drastica compressione del reddito, la devastazione ambientale.
L'attacco erosivo dei residui margini di libertà e di autonomia, strappati dalla conflittualità sociale e concessi attraverso le norme liberali dei regimi democratici, fa registrare un aumento della torsione del diritto in arbitrio del più forte.

In questi ultimi 10 anni nel nostro paese sono stati affinati, prima dal centro-sinistra e poi dal centro destra, una serie di strumenti legislativi che sono lo specchio delle politiche liberticide e di sfruttamento sempre più selvaggio, caratteristiche di questa epoca in cui si saldano strategie globali e governi nazionali.
Sono quelle che chiamiamo "leggi di guerra", perché sono strumenti della guerra degli oppressori contro gli oppressi, una guerra transnazionale che si combatte con le bombe fuori dai confini e con leggi autoritarie all'interno dei confini. Sono leggi che hanno fatto morti e feriti.
Ci riferiamo alla legge 30 (figlia del pacchetto Treu), che ha sancito la legittimità della precarietà infinita del lavoro, del suo divenire merce di scarso valore della quale è sempre più difficile ricontrattare il prezzo, controllare la sicurezza. La precarizzazione riduce la capacità e la possibilità di contrastare gli abusi padronali. Basta dare un'occhiata alle statistiche degli infortuni sul lavoro per rendersi conto dell'ulteriore imbarbarimento della guerra di classe.
E poi la Bossi-Fini, una legge razzista che sancisce il legame tra lavoro e permesso di soggiorno, trasformando i lavoratori in schiavi e i disoccupati ma anche i lavoratori in nero, in clandestini da rinchiudere ed espellere. Le centinaia e centinaia di morti affogati lungo le nostre coste sono vittime della Bossi-Fini e della precedente Turco-Napolitano.
Ed infine il pacchetto Pisanu, venuto a dar maggior vigore punitivo ad un apparato legislativo pensato per reprimere ogni forma di opposizione sociale. Non è un caso che certe leggi vengano sistematicamente usate per reprimere le lotte sociali. In questi mesi abbiamo visto accuse di associazione sovversiva o devastazione colpire i partecipanti ai picchetti, occupanti di case, manifestanti, lavoratori in sciopero, migranti in lotta.
A ciò si aggiunga un generico legiferare che ha il suo fulcro nella tutela dei potenti e nell'accanimento contro i senza potere. All'accumulo di privilegi fa da contrappunto un saccheggio sistematico di risorse, che vede cadere ogni forma di tutela dell'ambiente, dei lavoratori, dei beni comuni.

Affronteremo quindi i temi intorno ai quali riteniamo necessario che la Federazione si doti di strumenti adeguati a coordinare e stimolare la lotta.

Sul fronte del lavoro

La guerra del lavoro è divenuta negli ultimi anni sempre più aspra, concretandosi in un'offensiva padronale e governativa di estrema durezza. Le risposte all'offensiva non sono state purtroppo adeguate alla posta in gioco. La logica concertativa, le derive corporative, la burocratizzazione degli apparati sindacali sono una cappa asfissiante di cui i lavoratori si devono sbarazzare.
Il lavoro precario - Legge 30, altrimenti detta legge "Biagi" - è divenuto sempre più precario, al punto che sarebbe più corretto parlare di lavoro usualmente precario e occasionalmente "garantito".
Lo sviluppo di lotte, coordinamenti, iniziative dei lavoratori precari non è né semplice né scontato nei risultati. A maggior ragione è necessario perciò far conoscere le esperienze, le lotte che si sviluppano in questo settore sociale e favorirne il coordinamento con le lotte generali dei lavoratori.
Lo stesso si può dire per il lavoro migrante, spesso in nero, ma comunque ricattato e privo anche delle minime tutele. Per il lavoro femminile, sempre poco, meno pagato e meno garantito di quello maschile, a conferma che l'asse della povertà anche nel nostro paese ha una discriminante di classe ma anche una di genere.
La ristrutturazione del processo produttivo e dell'inquadramento del lavoro oggi viene realizzata attraverso la esternalizzazione che copre tanto gli assetti industriali pubblici e privati, quanto la sfera dei servizi (sanità, gestione del territorio, previdenza, trasporti, scuola). Ciò crea frammentazione e precarietà che acuiscono la divisione del lavoro sia all'interno delle aziende che fra le diverse categorie. L'incertezza sulla propria condizione reddituale accentua la subordinazione dei lavoratori rendendo più difficile i percorsi di autoorganizzazione collettiva.
La de-territorializzazione operata dal capitale, con la divisione tra lavoratori impegnati nella stessa unità produttiva o di servizio, con lo "spostamento" dei nuclei produttivi sia all'interno che all'esterno dei confini nazionali, deve trovare una risposta nella ri-territorializzazione delle lotte: questioni quali la casa, i servizi, il reddito, la devastazione dell'ambiente sono ambiti in cui costruire conflitto e autogestione delle lotte e della vita.
Come dimostrano le direttive europee, quali la Bolkestein, il terreno di lotta non è solo locale ma deve estendersi; costruire percorsi solidali e di autoorganizzazione internazionale è il percorso storico dei lavoratori che vogliano emanciparsi.
L'indebolimento della capacità contrattuale dei lavoratori, troppo spesso delegata ai sindacati istituzionali nonché ai loro protettori politici, ha ridotto sensibilmente il salario. Ce ne accorgiamo ogni giorno: è sempre più difficile arrivare alla fine del mese, usufruire di servizi sociali che diventano sempre più scarsi e più costosi.
L'egemonia finanziaria nelle economie capitalistiche odierne detta direttamente le politiche governative con l'effetto di comprimere il reddito utilizzabile dalla massa dei lavoratori e di ridurre le possibilità di reddito utilizzabile dalla massa dei disoccupati.

A fronte delle ricorrenti resistenze a tali politiche, la risposta del potere è quella di restringere sempre più le libertà associative e di manifestazione del dissenso. Le leggi antisciopero, le continue precettazioni oltre alle più generali norme repressive, tendono a negare la possibilità di autoorganizzazione. Nell'attacco all'organizzazione autonoma dei lavoratori si distingue l'azione complice dei sindacati istituzionali e della cosiddetta "sinistra" del palazzo.

Per gli anarchici l'autoorganizzazione, sia stabile (sindacale), sia connessa allo sviluppo di movimenti contingenti (coordinamenti di lotta, collettivi di lavoratori, ecc.) è importante perché mette gli sfruttati nella condizione di essere protagonisti, attraverso meccanismi decisionali libertari, all'interno di strutture orizzontali nelle quali dare voce a chi non ce l'ha, dare forza a chi ne è stato privato, costruire un ambito di libertà che tenda a prefigurare relazioni sociali non gerarchiche. In quest'ottica il metodo assume una rilevanza centrale, che occorre in ogni occasione ribadire, poiché è il fulcro di un agire sociale libertario. Questo nella chiara consapevolezza che solo l'accelerazione del conflitto sociale consente la rottura dell'ordine dominante sotto il profilo simbolico non meno che materiale. La percezione di sé come soggetti capaci di autonomia politica e sociale è una scommessa che si vince con la lotta.
Nella definizione degli obiettivi delle lotte compito dei libertari è sostenere ogni forma di autonomia dall'istituito rispetto a miglioramenti che si inseriscano nell'alveo della statualità. Lo sforzo degli anarchici deve costantemente essere volto all'allargamento della coscienza libertaria degli sfruttati. Il miglior modo di apprezzare la libertà consiste nel praticarla.
L'azione diretta, l'organizzazione orizzontale, il superamento dei vincoli legalitari sono il terreno di coltura per il sedimentarsi di una sensibilità libertaria, radicalmente antistatale ed anticapitalista. Riteniamo pertanto prioritario che nei luoghi dello sfruttamento, là dove si sviluppano lotte sindacali o territoriali, occorra far riemergere con forza l'opzione libertaria, sostenendo lo sviluppo di forme di conflitto fuori dalle pastoie delle leggi vigenti, promuovendo il mutuo appoggio e la solidarietà dal basso.

Riteniamo importante costruire iniziative di collegamento del lavoro precario, migrante, parcellizzato che si facciano promotrici di comitati di appoggio alle lotte, di casse di resistenza e nell'organizzazione di momenti di controinformazione sul territorio.

Occorre puntare all'unità dal basso dei lavoratori, fornendo strumenti di critica e analisi atti a valorizzare l'autorganizzazione degli sfruttati, nel quadro di una forte autonomia dal potere politico, di critica e opposizione alle derive burocratiche all'interno delle strutture di autoorganizzazione dei lavoratori.

Sul fronte dell'immigrazione e del razzismo

L'Europa, con i trattati di Maastricht, Schengen, Dublino I e II, ha stabilito il principio che la libera circolazione vale per le merci ma non per quella particolare merce che sono i lavoratori immigrati. Nei loro confronti in questi ultimi anni si sono moltiplicate le barriere sia fisiche che legislative, alimentate da un clima culturale di intolleranza.
Nel nostro paese la Legge 189/2002, la cosiddetta Bossi-Fini, che modifica in peggio l'impianto della precedente Legge 40/1998, la Turco-Napolitano promossa dal centro-sinistra, conferma e inasprisce una vera e propria legislazione razzista e segregazionista.
In questi anni l'attività dei legislatori dei paesi europei è stata frenetica: occorreva al più presto adeguare le norme per impedire l'accesso a stranieri indesiderabili, per fermare "l'invasione degli straccioni", per limitare il diritto d'asilo, per far sì che le espulsioni avvenissero a norma di legge. La legge del più forte. Sancita dai democratici parlamenti dei paesi civili.

I migranti sono non-persone da sfruttare nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi, cui imporre condizioni occupazionali durissime sotto il ricatto della perdita del lavoro, che significa la fine del diritto al soggiorno nel nostro paese. Significa diventare "clandestini", "sans papiers", indesiderabili da rinchiudere nei centri di detenzione per immigrati o, se recidivi, in galera.
Uomini, donne e bambini affrontano ogni sorta di disagi e peripezie per sfuggire dalla miseria, dalle persecuzioni, dalle guerre, dai genocidi, cercando in Europa o negli Stati Uniti un luogo di salvezza e sopravvivenza. Molti muoiono lungo la via: soffocati nelle intercapedini dei camion, affogati nel Mediterraneo, schiacciati nelle gallerie ferroviarie, uccisi dalle guardie di frontiera di Bush sulle rive del Rio Grande e da quelle di Zapatero a Ceuta e Melilla, nei mille confini blindati delle fortezze del Nord, ingannati e truffati dai tanti malavitosi che, con la complicità della polizia transfrontaliera, si arricchiscono grazie al trasporto di questa merce umana. Non si può più parlare di emigrazione, di singoli che decidono di partire, poiché sempre più marcatamente quello cui assistiamo è un vero fenomeno migratorio, che vede muoversi interi gruppi sociali o etnici.

Il presumibile acuirsi del divario tra Nord e Sud non potrà che mettere in movimento masse sempre maggiori di persone. Un po' ovunque sono sorti campi di detenzione per stranieri illegali. In Italia questi centri, circondati dal filo spinato, con torrette di guardia e uomini armati a presidiarle, somigliano a dei veri lager. Lager di Stato.
Uno Stato la cui politica nei confronti dell'immigrazione si può riassumere con una semplice e micidiale formula: selezione, sfruttamento, lager, espulsione.

Opporsi alle politiche razziste è uno dei principali compiti che ci attendono nei prossimi anni.
A nostro avviso gli assi prioritari di lavoro per chiunque voglia contrastare queste politiche razziste sono:

  • la lotta per la chiusura dei lager per immigrati;
  • la lotta per contrastare  concretamente la legislazione razzista;
  • l'impegno per impedire o, quantomeno ostacolare, le espulsioni. Utile anche il boicottaggio delle compagnie aeree e di chiunque si renda complice del sistema di segregazione e  delle deportazioni.
  • il sostegno alle lotte dei migranti all'interno dei CPT, l'informazione capillare sulle torture e violazioni di diritti umani non dimenticando chi, come Croce Rossa e Misericordia, ne è complice.
  • la costruzione di ponti di concreta solidarietà tra lavoratori "indigeni" e lavoratori immigrati, tra realtà territoriali affini e tra tutti coloro che partecipano alle lotte antirazziste.
  • il sostegno alle reti autoorganizzate dei migranti per un loro maggiore radicamento e collegamento.

Per fermare le politiche razziste non basta l'opposizione di principio ma occorre costruire un terreno di lotta comune sui temi della casa, dei servizi, delle libertà, del reddito che, in quanto lavoratori sfruttati, oppressi, inquinati sia i migranti che gli indigeni hanno in comune. Superare il razzismo significa rintracciare e rivitalizzare le ragioni dell'internazionalismo proletario, di chi, oltre gli Stati e oltre le frontiere, riconosce il proprio compagno di lotta in ogni sfruttato.

Sul fronte del militarismo

Siamo in guerra. Una guerra totale, permanente che attraversa il pianeta, distruggendo la vita, la libertà, la dignità, il futuro di milioni di uomini e donne.
Il paradigma della "guerra permanente" miete vittime non solo tra le popolazioni degli Stati "canaglia" di turno ma anche tra gli oppositori dell'ordine costituito. I pacifisti, gli antimilitaristi, i lavoratori in lotta, gli antirazzisti sono equiparati ai terroristi con un'operazione propagandistica che ricorda da vicino le accuse di "collaborazionismo" col nemico rivolte nel secolo scorso a chiunque non accettasse la logica della guerra, del militarismo, degli Stati.
Le politiche sicuritarie degli ultimi anni hanno visto crescere su scala mondiale le misure repressive sul piano del "fronte interno", quello nel quale la posta in gioco è il disciplinamento forzato dei lavoratori, indigeni e migranti, e l'ammutolimento di ogni opposizione.
D'altro canto guerra interna e guerra esterna hanno lo stesso fronte e vengono combattute con la stessa determinazione e ferocia. La militarizzazione della vita sociale tramite provvedimenti che travalicano persino i limiti della "normalità" democratica, senza eccessivi contraccolpi sul piano della conflittualità interna, è stata resa possibile dalla gigantesca operazione anestetica innescata dell'"emergenza" terrorismo.
Nella guerra contro il terrorismo, terrorista diviene chiunque non accetti le regole del gioco imposto dal poliziotto globale in divisa statunitense.
Nel nostro paese il moltiplicarsi degli allarmi reali o presunti, la propaganda militarista, la retorica più becera, l'enfasi su patria ed onore, bandiera e marce militari, il riemergere del nazionalismo sono il brodo di coltura in cui sono cresciute e si sono alimentate le tentazioni belliciste ed il crescente autoritarismo, sino all'impegno bellico diretto in Iraq e Afghanistan. Di quest'ultimo si parla poco, perché la "missione di peace-keeping" è sostenuta dalla destra come dalla sinistra: è una guerra bipartisan.
Di fronte al consolidarsi del paradigma della guerra permanente, l'impegno antimilitarista ha un'importanza primaria. Sia sul piano dell'informazione, sia su quello della lotta si tratta di riprendere l'iniziativa, di non essere succubi di quelle altrui, di dar vita a momenti di confronto e manifestazione collettive, mantenendo forte il lavoro sul piano locale.

In particolare riteniamo che l'impegno contro il militarismo dovrebbe svilupparsi intorno a questi temi:

  • informazione e lotta contro le installazioni militari, le industrie belliche, le esercitazioni armate sul nostro territorio;
  • opposizione alla guerra e all'invio e mantenimento di truppe tricolori all'estero: fuori l'esercito italiano dall'Iraq, dal Kosovo, dall'Afganistan...
  • campagne antimilitariste contro l'esercito e la propaganda di guerra: opposizione ai Rap Camp, alle parate militari, alle feste in divisa, all'ingresso dei militari nelle scuole...
  • campagna per la smilitarizzazione di vie e piazze come proseguimento ideale dell'iniziativa "coprire le vergogne del militarismo".

Sul fronte del clericalismo

Chi si fosse illuso (e a sinistra erano sin troppi) che la chiesa cattolica potesse rappresentare un baluardo contro il dominio della merce nell'epoca del capitalismo trionfante non ha colto che il ruolo della chiesa si stava sì ridefinendo ma nell'alveo della sua più schietta tradizione. La chiesa oggi rappresenta un puntello per qualsivoglia governo del nostro paese e un importante supporter anche altrove. La religione cattolica (ma, in generale, un identico discorso si potrebbe fare per altre confessioni cristiane come anche per l'islam o l'ebraismo) offre un argine al diluirsi delle identità nel main stream della merce sempre uguale a Nairobi come a Roma (al di là dei portafogli necessari all'acquisto). Un argine del quale nessun governo può fare a meno, perché, nonostante tutto, è più facile giustificare una guerra contro la barbarie islamica che una per il controllo delle risorse e delle vie di comunicazione.
La chiesa, come moneta di scambio per la tutela morale nei confronti dei governanti e dei governati, si arroga il diritto di dettare le condizioni di vita di milioni di persone. In questi anni i preti stanno incamerando giorno dopo giorno pezzi sempre più grossi della nostra libertà: ieri la legge sulla fecondazione assistita e domani, l'aborto, l'esclusione dei gay... Per non parlare dell'8 per mille, dell'esenzione dall'ICI, dello stipendio degli insegnanti di religione e di tutto quello che riescono ad arraffare.
Riteniamo pertanto necessario promuovere iniziative di carattere politico e culturale in grado di contrastare il clericalismo avanzante e di lottare contro le ingerenze clericali nella vita pubblica,  smascherando la farsa della guerra di religione e offrendo spunti per un dibattito ampio capace di coinvolgere anche i tanti che oggi a sinistra si stanno facendo ammaliare dalle sirene clericali.

Quella che abbiamo di fronte è davvero una battaglia di civiltà, una battaglia che da anarchici abbiamo tutti gli strumenti per vincere, perché il nostro non è un pensiero subalterno, timorosa del proprio fondamento, incapace di far fronte alle sfide eluse da una modernità che non ha potuto/saputo compiere per intero il processo di secolarizzazione.

Sul fronte dell'autogoverno territoriale

Il concetto di rivoluzione tipico degli anarchici invita a intervenire tanto per distruggere il potere quanto per ricostruire la società senza dominio. Questa pratica di rivoluzione proietta l'affermazione di una società libera fuori e contro le istituzioni, radicandosi nelle dinamiche sociali delle quali valorizzare le istanze di libertà oggi sia pure minimamente presenti. I luoghi della cittadinanza vanno strappati dalle griglie di burocratizzazione politica e amministrativa, ma senza delegare la necessaria gestione quotidiana della vita associata degli individui a un ipotetico domani liberato e liberante, ma anzi assumendo tale compito come pratica strategica e tattica di liberazione locale, coordinandola sino alla scala federalista più alta.
Il sistema sociale gerarchico che nello Stato trova espressione, per sua natura infatti, nega il federalismo e l'autogoverno comunitario, né potrà mai affermarli.
Il federalismo degli stati e degli enti locali trova la sua ragion d'essere nella regolazione della divisione del profitto fra industriali e proprietari terrieri, fra profitto industriale e rendita, tra il monopolio dei mezzi di produzione e il monopolio della terra e degli immobili.
La soluzione di problemi quali la questione delle abitazioni o la questione ambientale non può prescindere dalla lotta contro la rendita.
Il federalismo vero e l'autogoverno comunitario non possono certamente essere istituiti per decreto. Di federalismo e autogoverno, tutti i politicanti si sciacquano la bocca ma volutamente stravolgono l'essenza di questi due ragguardevoli concetti: la costruzione in prospettiva di una rete mutua e solidale di comunità autogestite ed autogestionarie che si autogovernano in campo politico, economico, culturale programmando il loro essere società fuori e contro il recinto in cui lo Stato centrale le vuole tenere ingabbiate.
Solo un impegno che parta dal basso,  solo un progetto sociale, gradualista rivoluzionario, capace di costruire con proposte praticabili nell'immediato cellule di società libertaria, possono nel tempo edificare un reale federalismo economico e politico, un federalismo che non nasca dalle illusioni di trasformare uno Stato "centralista" in Stato "federale" o di dividere uno Stato in più Stati. Il federalismo reale non potrà mai né essere concesso dallo Stato, né aversi con la frantumazione di uno Stato in più Stati.
Federalismo reale è quello che si costruisce dal basso, in orizzontale, che nega lo Stato per sostituirlo in prospettiva con una rete di liberi municipi autogovernati in senso extraistituzionale, e federati nei principi del mutualismo e della solidarietà.

Noi riteniamo, pertanto, che l'anarchismo sociale:
debba saper promuovere con proposte e iniziative politiche e sociali la formazione di strutture di massa aperte, di base e autogestionarie, proiettate verso un mondo nuovo, verso una società senza più dominio;
debba sapersi aprire a quanti si riconoscono su valori genuinamente anticapitalisti e di azioni sociali alternative fuori da ogni recinto gerarchico e politico di parte;
debba saper andare fra i lavoratori, fra gli sfruttati, nelle strutture di lotta territoriale e ambientale, nei movimenti, nei quartieri, nelle nostre comunità non solo con l'obbiettivo di rendersi visibile con la propaganda dei propri ideali o con il proprio sostegno verso rivendicazioni protese a migliori condizioni di vita, ma anche per cominciare a realizzare questa pratica gradualista di autogoverno;
debba saper stimolare e attuare, laddove e quando si renderà possibile, strutture sociali di lotta complessiva, strutture comunaliste e di autogoverno.

Sul fronte della repressione

Gli anarchici sono sempre stati oggetto delle attenzioni repressive del potere per la loro chiara opposizione ad ogni forma di dominio statale.
In particolare oggi che si vuole estorcere consenso alla guerra permanente e che si costruiscono le figure fittizie del nemico, sia esterno che interno, gli anarchici occupano un posto di assoluto rilievo nell'intensificarsi dell'accanimento repressivo nei confronti delle lotte politiche e sociali: non c'è dichiarazione, audizione pubblica o rapporto nel quale il ministro di polizia non additi gli anarchici come possibili autori di attentati. Condotte un tempo non sanzionate o sanzionate in modo lieve possono oggi portare ad accuse gravi ed al rischio di lunghe detenzioni. Migliaia e migliaia sono le denunce e i procedimenti penali a carico di attivisti politici e sociali nel nostro come in altri paesi.
Attività di informazione e di solidarietà militante si impongono per rompere l'isolamento nel quale la strategia del potere ci vuole collocare per depotenziare e destrutturate ogni possibile fronte di lotta.
E' importante leggere e spezzare ogni strategia di provocazione – ben viva nella nostra storia dalle bombe stragiste del 1969 in poi – con la quale si tenta di annullare ogni spazio di agibilità sociale e politica extraistituzionale e rivoluzionaria, di cui il movimento anarchico e la FAI in particolare, sono forze ben vive e presenti. Uno dei tasselli di tali strategie di provocazione è la presenza di una sigla identica alla nostra che viene ampiamente utilizzata in modo aggressivo contro la FAI. Tanto ci basta per definire questa sigla frutto di una volontà chiaramente provocatoria, magari mascherata da pulsioni egemoniche nei confronti dell'intero movimento anarchico. Sia chiaro che non assisteremo inermi a questa operazione ed agiremo, con la dovuta energia, per impedire la chiusura del cerchio repressivo.

L'attenzione all'autotutela del circuito militante e ad una opportuna cinta di sicurezza ai suoi contorni va coniugata con quell'esercizio di autoeducazione di vista e udito in ogni angolo della penisola che, sola, sarebbe un minimo indizio sufficiente ad una corretta percezione di ciò che si agita nel territorio. Solo con una netta presa di posizione seguita da pratiche coerenti, tese anche ad allargare il raggio di consensi e di agibilità pubblica del nostro agire politico, sarà possibile pensare di articolare credibilmente resistenza e contrattacco, capitalizzando in senso strategico una capacità di riflessione politica da sviluppare nella direzione emersa dal dibattito di questo XXV Congresso.

A proposito di lotta al terrorismo gli anarchici federati considerano come unici terroristi i governi e le bande armate al loro servizio, nascoste o palesi.
Gli sfruttati, gli oppressi sono sempre in condizione di legittima difesa e ogni considerazione sui tempi e i modi della lotta sono di opportunità politica.

Carrara 1 Novembre 2005

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